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Alitalia: operazione tracollo
Così una classe imprenditoriale fallimentare e senza spiccioli fa rimpiangere lo stato padrone
di Alberto Brambilla | 13 Febbraio 2014 ore 11:00

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“Se i ‘capitani coraggiosi’ sono Colaninno e Tronchetti allora preferisco le partecipazioni statali. Un liberista in economia come me si trova a dire viva le partecipazioni statali”. Carlo De Benedetti, fondatore della holding Cir, a “Mix24” - 29 ottobre 2013

Alitalia è una compagnia impoverita fino allo stremo, “cash strapped” come la definiscono i giornali anglosassoni. Negli ultimi cinque anni è stata mandata avanti per inerzia da una cordata di azionisti italiani, tra banchieri e imprenditori. I principali esponenti dell’establishment economico-finanziario nazionale con interessi tentacolari in società dipendenti dalla “mammella pubblica” ma, per la stragrande maggioranza, senza esperienza diretta nel delicatissimo settore aereo. La famiglia Benetton con Atlantia, i Riva dell’Ilva, la Pirelli di Marco Tronchetti Provera, la Fondiaria Sai di Salvatore Ligresti, la holding Immsi del presidente Alitalia Roberto Colaninno, l’Acqua Marcia cassaforte di Francesco Bellavista Caltagirone, Emma Marcegaglia ex capo di Confindustria, la Air One di Carlo Toto, e altri. Tutti sotto l’ombrello di banca Intesa Sanpaolo guidata all’inizio da Corrado Passera.
L’avevano rilevata dopo avere ricevuto un finanziamento pubblico (300 milioni di euro), ripulita dai debiti ereditati dalla ventennale e dissipatoria gestione statale (almeno 3,8 miliardi) che quindi sono stati caricati sulla collettività insieme ai costi indiretti degli ammortizzatori sociali, dell’impatto sui lavoratori dell’azienda e dell’indotto dovuto alla riduzione della forza lavoro di un terzo (così il costo complessivo lievita secondo diverse stime a 5-7 miliardi di euro); oltre al cachet del commissario liquidatore, il già ministro delle Finanze Augusto Fantozzi (15 milioni di euro o “qualcosa meno”, disse lui). Le regolari procedure normative e legislative sono state bypassate fin dalla genesi con provvedimenti cuciti su misura (la vecchia compagnia insolvente non è stata fatta fallire bensì dichiarata in “squilibrio economico strutturale”), le sentenze dei tribunali europei sono state calpestate (la Corte del Lussemburgo definì “illegale” il prestito ponte antecedente all’intervento che è stato bollato anche dalla Commissione europea come “aiuto di stato”), le regole della normale concorrenza sono state sospese (l’Antitrust ha garantito per i tre anni successivi all’avviamento il monopolio sulla rotta domestica più profittevole Milano-Fiumicino). E’ stato avallato il puerile tentativo di creare un monopolio artificiale “fondendo” Alitalia con il suo principale concorrente nazionale, l’Air One. Insomma, condizioni di favore preparate dal governo Berlusconi per consentire ai capitalisti privati di fare dell’ex compagnia di bandiera un grande e redditizio vettore europeo che invece è arrivato a un soffio dalla bancarotta, continua a perdere soldi e spargere debiti sui fornitori.
Nell’ottobre scorso anziché portare i libri in tribunale i “capitani coraggiosi” – privati – hanno lanciato il definitivo “mayday” all’indirizzo del periclitante governo Letta: quel miliardo e cento messo in cassa inizialmente era stato consumato – nessuno aveva mai messo soldi freschi – e gli aerei rischiavano di restare a terra. Il governo si è dimenato per mesi cercando un concorrente straniero disposto a comprarla facendosi carico dei debiti pregressi (e sostenere quelli futuri). Nemmeno il socio estero, Air France-Klm, partecipato dallo stato francese, ha voluto lanciare quel “take over” che nella testa dei vertici Alitalia doveva essere l’approdo finale del vettore tricolore. Già nel 2011 tra gli azionisti cominciavano a montare forti dubbi sul passaggio ai transalpini. Air France, da sempre nel cda di Alitalia e corresponsabile della gestione, valuta la società “zero”. Per dare garanzia di affidabilità il presidente del Consiglio, Enrico Letta, ha convinto Poste Italiane, un gruppo totalmente pubblico, a fare da “cavaliere bianco” ed entrare nel capitale con un esborso generoso rispetto al valore attribuito dagli analisti al vettore nel suo complesso: 75 milioni di euro di risparmi postali degli italiani o derivati. Nei prossimi mesi Poste venderà alcune quote proprie sul mercato (una privatizzazione sui generis) evitando lo scorporo delle attività bancario-assicurative (più profittevoli) dalle “spedizioni” (in perdita). Ora si sono fatti avanti, pare con convinzione, gli investitori emiratini di Etihad che fino a marzo verificheranno le reali sostanze di Alitalia scrutando i dati finanziari riservati – quel che i bilanci pubblici non dicono – con l’intenzione di divenire il principale azionista singolo della compagnia col 40 per cento attraverso l’iniezione di 300 milioni di euro. E poco importa se nelle mail interne spedite ai dipendenti sotto le festività natalizie la direzione evidenziava che la maggioranza resterà italiana, la premessa vincolante degli emiratini è quella di “dettare le strategie operative e di marketing”, dicono persone a conoscenza della trattativa in fieri a Palazzo Chigi.
Etihad ovviamente non fa beneficenza. Ha appetiti verso lo scalo romano “eurocentrico” di Fiumicino e soprattutto intende servirsi di Alitalia per espandersi ulteriormente in Europa, come fosse un “cavallo di Troia”, così da soddisfare le sue ambizioni di supremazia globale col carburante illimitato dei petrodollari del suo azionista di riferimento, il sultanato degli Emirati Arabi Uniti.
Ironia della (amara) sorte, Alitalia è quindi in predicato di tornare nelle mani pubbliche – stavolta straniere – come prima delle “curatele” rivelatesi fallimentari dei privatizzatori italiani che ormai allentano la presa sulla cloche dopo avere perso 1,2 miliardi di euro sul quinquennio producendo un debito monstre da 2,1 miliardi – tra debiti bancari (956 milioni), verso i fornitori (605) debiti finanziari (169) verso lo stato cioè tasse (44) e altri di diversa natura (366) – e tuttora in crescita (i dati consolidati si riferiscono al 2012). A voler fare un paragone con la Vecchia Alitalia di stato, come ha fatto Gianni Dragoni sul Sole 24 Ore calcolando le perdite medie dal 2008 a oggi, si capisce che la performance è peggiorata. Certo, il contesto economico è recessivo e la competizione sul settore molto più aggressiva di un tempo ma è utile a fare un bilancio di carattere comparativo: mediamente ogni mese Alitalia ha perso 1,93 milioni di euro in più (22,76 contro i 20,83), al giorno fanno 34 mila euro di differenza. (La realtà è più grave dalla “finzione” statistica: si sa che le perdite quotidiane effettive sono superiori e ammontano a 1,6 milioni di euro). Forse è superfluo aggiungere che le ambizioni scritte nel progetto industriale iniziale sono state mancate puntualmente e sotto molti punti di vista a cominciare da quello operativo: utile di 171 milioni di euro al 2011? Mai stata in utile (l’ultimo anno con profitti è il 2002 ma solo grazie alla multa comminata all’olandese Klm per essersi ritirata dalla fusione col vettore italiano). Pareggio operativo al 2010, poi posticipato al 2011? Mai certificato dai bilanci ma sempre e soltanto “a portata di mano” stando ai reiterati proclami del management. Quota di mercato al 55-56 per cento? Niente da fare: sul mercato domestico la penetrazione di Alitalia è al 50 per cento, con i voli da e per l’Italia è al 21,6, stabile anche in questo caso. Certo non ha perso posizioni ma non è detto che sia un bene perché per farlo ha mantenuto in vita rotte nazionali superflue.
Eppure ai ventidue azionisti iniziali della cordata era stata consegnata una compagnia rodata peraltro con un marchio dall’appeal internazionale (grazie al quale in fase d’avviamento si sono evitate perdite di 1 miliardo di euro, diceva il commissario Fantozzi) oltre a qualificate competenze professionali che sono andate disperse (ad esempio 850 piloti su duemila sono rimasti senza impiego; parte sono emigrati all’estero e parte sono in mobilità). Come è possibile che l’operazione di “salvataggio” si sia trasformata in una formidabile “operazione tracollo”?

Gestione d’impresa confusa e “errante”. Alitalia ha conservato le peggiori caratteristiche del carrozzone di stato (che fu) dal punto di vista gestionale: una direzione strategica cangiante che ha modificato i suoi piani in corsa sull’onda dell’emotività del clima politico-sindacale del momento perché imbrigliata da una logica ombelicale, autoreferenziale, come fosse estranea a un contesto internazionale in rapido mutamento. Basti dire che sono stati presentati cinque diversi piani industriali in un lustro, e sono cambiati tre amministratori delegati. Non è un fattore marginale per spiegare il dissesto visto che nel settore aereo i piani strategici producono i loro effetti, buoni o cattivi che siano, solo anni dopo. Si poteva evitare di cambiare, fare, disfare e poi annaspare? Non proprio. Il peccato originale sta nel primissimo piano industriale, il cosiddetto “piano Fenice” presentato tre giorni prima del lancio della compagnia (agosto 2008) e stilato con i servigi di banca Intesa Sanpaolo: il motore, il finanziatore d’ultima istanza, l’epicentro di tutta l’operazione e, ovviamente, la prima banca del paese per sportelli e dimensioni che adesso però freme per vendere.
Il “piano Fenice rappresentava un estremo tentativo di non lasciare fallire Alitalia e di non mettere in crisi il sistema del trasporto aereo” (copyright Roberto De Blasi, ex dirigente Alitalia, e Claudio Gesnutta, economista dell’Università La Sapienza) ma ha prodotto guai a cascata più volte illuminati dagli esperti. Una specie di ‘sabbie mobili’. Il piano d’impresa ha avuto il difetto fatale di concentrarsi sul mercato domestico – già all’epoca penetrato dalle agguerrite compagnie low cost – riducendo le rotte intercontinentali e gli aeroplani destinati al cosiddetto lungo raggio. Quest’ultimo era l’unico segmento considerato profittevole anche dalla Association of European Airlines (Aea) e quello sul quale si stavano concentrando all’epoca i concorrenti di Alitalia, come British Airways unitasi alla spagnola Iberia. Alitalia invece ha più che altro fornito passeggeri all’hub parigino e olandese del socio forte Air France-Klm che quindi trasportava i passeggeri dall’altra parte dell’oceano Atlantico guadagnando la fetta più consistente dei ricavi.
L’essenza della Fenice sta però nella riduzione dei costi insieme all’aumento dei prezzi con l’obiettivo di recuperare più risorse possibili. L’esecutore materiale è l’ex amministratore delegato Rocco Sabelli, ex collega del longevo presidente Roberto Colaninno in Telecom Italia e suo seguace fedele. Almeno finché il sodalizio, anche d’affari privati (nella Piaggio e nella Omniainvest amministrate da Colaninno) non s’incrina per delle divergenze sul destino della compagnia. Colaninno s’inalberò quando, nel 2010, Sabelli rivelò al giornalista Bruno Vespa di parteggiare per una fusione con Air France da concludere al più tardi tre anni dopo per costruire “un aggregato più grande” (aveva svelato forse troppo presto un piano impopolare vista la fronda degli azionisti, pure più rumorosa di quando Sabelli chiese un aumento di capitale). Sabelli è stato descritto come un tagliatore di teste, determinato e tutto concentrato a portare a casa il risultato del pareggio di bilancio che però sfiorerà soltanto nel 2011 – l’anno migliore per Alitalia che comunque si chiude con 69 milioni di perdite – per poi congedarsi prima che la barca inizi ad affondare davvero (con uno stipendio da 800 mila euro annui e una buona uscita d’entità tuttora sconosciuta). “Sabelli ha sbagliato bene, nel senso che ha dato l’interpretazione corretta di un piano costruito male che di fatto ha regalato 12 milioni di passeggeri alle altre compagnie orbitanti in Italia”, dice Ugo Arrigo che insegna all’Universita Bicocca di Milano ed è un profondo conoscitore della vicenda Alitalia perché se ne occupò come consulente presso la presidenza del Consiglio nel 2004 (propose di non tagliare i costi ma di puntare all’incremento dei ricavi) e aveva previsto la débâcle del piano Fenice.
L’opera del ristrutturatore Sabelli ha riparato Alitalia dalla prima feroce ondata di recessione. L’ingegnere venuto da Agnone (Molise) ha annunciato con anticipo di volere lasciare spontaneamente Alitalia. Lo fa dopo avere recuperato i deficit operativi (palesatisi nell’estate “orribile” del 2009 tra disservizi e ritardi enfatizzati dalla stampa) nel momento migliore (soprattutto per se stesso). La seconda sberla recessiva infatti la prende in piena faccia il suo successore Andrea Ragnetti, altro manager nato in Telecom e preso per cooptazione – come da prassi – durante un anno sabbatico successivo all’esperienza in Philips, dove aveva ricoperto l’incarico di amministratore delegato della divisione Consumer Lifestyle. Sabelli lo avrebbe indicato come responsabile del commerciale Alitalia in quanto esperto di marketing. Un altro candidato al vertice era Elio Catania di Intesa. Secondo indiscrezioni, quest’ultimo era però inviso al presidente Colaninno e così, senza troppi crucci e con colpevole ritardo, nel marzo 2012 gli azionisti s’affrettano a ripescare Ragnetti sebbene nell’ambiente fosse considerato sostanzialmente “inadatto” per caricarsi sulle spalle una compagnia aerea in ristrutturazione. Con l’amministratore s-delegato (aveva deleghe ridotte rispetto a Sabelli) venuto dalla multinazionale degli elettrodomestici avviene la “virata pop” di Alitalia. Il marketing diventa un core business: si fa l’Alitalia Day (200 mila euro di manifestazione con hostess in divisa vintage e aerei vecchio modello) per rianimare l’orgoglio dei dipendenti in realtà sempre più scorati nel vedere che si fanno concorsi esterni per assumere nuove leve quando loro restano fermi. Partono le gite aziendali per fare spogliatoio, viene rinfrescato il sito internet, la comunicazione si “rinnova” con l’obiettivo di difendere l’azienda dalla stampa ostile (ad esempio il settimanale l’Espresso non viene caricato a bordo in seguito a un articolo sulle pressioni formali e informali fatte ai piloti per risparmiare carburante, cosa poi confermata dalla trasmissione “Report”). Tutto ciò è servito a cambiare la percezione dell’Alitalia, che quantomeno ha raggiunto dei buoni record di puntualità? Non proprio visto che nel 2013 è al 70esimo posto della classifica dei World Airlines Awards, basata sui sondaggi tra i passeggeri, subito dopo l’Azerbaijan Airlines e prima della Scoot, una iper-low cost di Singapore. Significativo poi l’atterraggio sbagliato della rumena Carpatair cui Alitalia appaltava brevi rotte interne: la stampa ha dato ampio risalto all’incidente dal quale poi scaturirà un’inchiesta della procura di Civitavecchia che accusa Alitalia di indebite percezioni ai danni dello stato (perché appaltare se, a maggiore ragione, ci sono centinaia di dipendenti in cassa integrazione?).
Ragnetti però non si limita alla “facciata”. Alza i costi e riduce i benefit per l’affezionata clientela business, quella degli uomini d’affari, proprio mentre le low cost si fanno forti e i treni veloci di Trenitalia e Italo intaccano il monopolio sulla Milano-Roma che era comunque destinato a ridursi di lì a poco con lo scadere della sospensiva Antitrust. Non solo. Il decisionismo di Ragnetti e le sue discutibili politiche convincono alcuni top manager a dare le dimissioni: il capo delle strategie commerciali Marco Sansavini va a ricoprire lo stesso incarico in Iberia (i giornali spagnoli stendono peana). Andrea Stolfa, vicepresidente esecutivo, tra gli artefici della ristrutturazione sabelliana, va a guidare una piccola compagnia di elicotteri da soccorso. Sono uscite passate in sordina ma la compagnia ha tuttora difficoltà a sostituire due della vecchia guardia (l’unico rimasto è Giancarlo Schisano, già direttore della produzione cui è stato sommato l’incarico di vicepresidente). Fatto sta che i conti collassano di nuovo, complice la persistente recessione che resta aggrappata all’Italia: l’aviazione è sensibilissima alla crescita economica (la correlazione tra pil e andamento del mercato è del 99 per cento nei paesi occidentali). Per fare deragliare le previsioni contabili di un intero mese basta un giorno di maltempo o, peggio, lo stop dei voli per l’eruzione di un vulcano come nel 2010 o il caro-carburante. Non a caso sono capitolati quattro vettori piccoli o piccolissimi nell’ultimo anno e mezzo (WindJet, Air Vallé, Belleair Europe e Small Planet Italia) mentre Meridiana – con la quale Alitalia in passato aveva avviato trattative sotterranee per fondersi – dipende maledettamente dai denari del principe ismaelita Aga Khan per restare in volo.
Nonostante tutto, dopo le dimissioni di Ragnetti (con minaccia di un’azione di responsabilità, poi ritirata) arriva un altro manager all’asciutto di aviazione: Gabriele Del Torchio che in precedenza aveva fatto correre le vendite delle motociclette Ducati. Ora studia e rivede i piani industriali. Nel luglio scorso ne aveva annunciato uno ma pochi mesi più tardi s’andava dritti verso il fallimento (aveva sbirciato male i conti?). Ora dovrà rifare tutto mentre gli arabi bussano alla porta. “I manager avevano per le mani armi spuntate. Il loro principale ‘errore’ è stato quello di accettare l’incarico con quel piano industriale e quegli azionisti che fino alla fine non hanno mai ricapitalizzato l’azienda quando è chiaro che senza capitali si perde per forza soprattutto nel mercato aereo: le quote di passeggeri e i profitti non aumentano per miracolo”, dice Andrea Giuricin, economista dell’Istituto Bruno Leoni e autore di “Alitalia, la privatizzazione infinita” (Ibl libri editore).
Azionisti per opportunismo delusi e orfani della politica. Una iniezione di capitale in realtà è avvenuta, ma solo quando il collasso era prossimo. Un intervento obbligato e in extremis da 300 milioni di euro nel dicembre scorso è servito per rendere attraente l’azienda verso l’eventuale migliore offerente. I soldi freschi in realtà garantiscono l’operatività fino alla primavera quando la liquidità verrà bruciata (di nuovo) per volare, per fare fronte ai debiti pregressi verso i fornitori e per le criticità della stagione invernale, tradizionalmente povera di passeggeri per tutti gli operatori. L’aumento di capitale ha scompaginato l’iniziale formazione della cordata viste le rinunce a sottoscrivere l’aumento. Quel che è certo è che pochi, o quasi nessuno, degli attori coinvolti ha guadagnato né politicamente né in reputazione personale né soprattutto finanziariamente, se non frattaglie attraverso operazioni di piccolo cabotaggio degne di una borghesia di stato egoistica e provinciale.
Attirati dalla chimera di un ritorno del 20 per cento dall’investimento e dalla promessa della redditività entro i primi tre anni (garanzia data da Passera), hanno perso e basta (il valore delle azioni “equity value” pre-aumento era di 30 milioni di euro dai 1.169 iniziali, cioè meno 97 per cento). Tant’è che lo “specchietto” non aveva attirato il fondo speculativo Clessidra guidato da un ex della Fininvest come Claudio Sposito (“Intesa ci ha prima coinvolto nella cordata, prospettandoci un piano industriale e un certo ritorno, poi abbiamo visto i numeri veri e abbiamo capito che non sarebbe stato remunerativo e ci siamo defilati”). Solo la piccola Fingen degli imprenditori fiorentini Fratini è riuscita a riavere da Intesa i 15 milioni investiti all’inizio sollevando così dubbi sul suo ruolo di “portage” per conto della banca, che poi ha rigirato la partecipazione a un altro azionista. Situazione opposta a quella di Emma Marcegaglia che proprio non riesce a liberarsi del suo 0,75 per cento – quota “simbolica” sottoscritta per “spirito imprenditoriale”. Ne aveva annunciato la vendita tra imbarazzanti gaffe e smentite quand’era presidente di Confindustria sul Sole 24 Ore (che le sconsigliava di imbarcarsi nell’impresa a suon di editoriali firmati dall’economista di Harvard Alberto Alesina). Nel frattempo, al massimo, ha potuto rilevare un hotel in Sardegna a prezzi stracciati, e senza concorrenti, che è stato ristrutturato con soldi pubblici in vista del G8 della Maddalena (trasferito a L’Aquila).
La contropartita maggiore semmai era rappresentata dalla possibilità di accreditarsi presso il “salotto buono” della politica vista la natura dell’operazione. Al netto delle schermaglie durante la campagna elettorale del 2008, auspicavano la formazione di una compagine imprenditoriale sia il centrodestra di Berlusconi, deus ex machina dell’avviamento, sia il centrosinistra di Walter Veltroni – “una proposta alternativa [ad Air France] di industriali italiani non può che essere benvenuta”, disse. L’endorsement “a Veltroni serve per annaspare a galla, a Berlusconi per filare sulla cresta dell’onda. Anche da questo piccolo buco della serratura affacciato sul retrobottega del potere, si intravede il ruolo della vicenda” (copyright e ricostruzione del magistrato Luca Baiada in “Operazione Alitalia”, Ombre corte editore). Nello stesso frangente, va ricordato, entrambi i candidati premier asserivano di non conoscere le manovre di Intesa in realtà cominciate sottotraccia almeno un anno prima con “un progetto imprenditoriale – dice una nota Consob dell’autunno 2007 – riguardante la combinazione di Alitalia con Air One”. La compagnia del costruttore abruzzese Carlo Toto aveva un patrimonio netto negativo e la banca era esposta nei suoi confronti per 26 milioni di euro. Ora Air One vola, non si è mai realmente fusa con Alitalia ma le ha affittato alcuni suoi aerei, mentre Intesa ha beneficiato della protezione della cordata per ripararsi da ricadute finanziarie importanti. Sarebbe ingenuo pensare che l’accrocchio sia servito solo a questo scopo, come spesso si dice, tanto più che Toto inizialmente aveva più d’una riserva nel farvi parte. Quando Berlusconi vince le elezioni (il decreto salva Alitalia passa per 23 voti, 24 dell’opposizione sono assenti – volevano davvero far saltare il banco?) tutti sventolano lo stracciato vessillo dell’italianità. Un tifoso era ad esempio il figlio di Colaninno, Matteo, all’epoca consigliere economico del Pd e oggi deputato, oppure l’ex ministro dei Trasporti del Pdl, Altero Matteoli, il cui figliolo Federico è invece lanciato verso una fulminante carriera da comandante in Alitalia. L’italianità è stata un pretesto. Puzzava fin da subito. Non tanto per l’arrivo quasi imminente di Air France nel capitale azionario quanto piuttosto per la provenienza dei soldi “italiani”: sia i principini della sanità privata, gli Angelucci, sia il finanziere siciliano Salvatore Mancuso hanno partecipato con due società estere, la Tosinvest e la Equinox.
I vantaggi collaterali del patto non scritto con la politica sono stati svelati durante una conference call con gli analisti da Giovanni Castellucci, l’amministratore delegato di Atlantia, società autostradale dei Benetton. In Alitalia ancora si ricordano quel 20 marzo 2009 come un giorno da brivido. Disse: “Dopo l’investimento il governo ci ha favorito… con il blocco per quattro mesi degli aumenti [autostradali] abbiamo perso venti milioni ma con il decreto milleproroghe ci abbiamo guadagnato molto, molto di più”. Da lì in poi il “milleproroghe” per i Benetton è diventato – accidentalmente s’intende, infatti il patron Gilberto ha sempre sostenuto che non ci fosse “alcun nesso” tra il dossier Alitalia e la convenzione di Autostrade – quello che la stampa definisce “un regalo di Natale” perché arriva puntuale a fine anno quando il costo dei pedaggi cresce (2009, più 2,7 - 2010 più 6). Nel 2012 l’uscente governo Monti con Passera ministro dei Trasporti, anziché portare a compimento il piano di razionalizzazione del pachidermico sistema aeroportuale nazionale – cosa utile per Alitalia –, approva l’aumento di 10 euro delle tariffe di transito per l’aeroporto di Fiumicino. Costo: 10 milioni di euro al mese per Alitalia ma fanno gongolare i Benetton, cioè i proprietari dello scalo (con Adr, Aeroporti di Roma) che hanno intenzione di raddoppiare edificando sui terreni della tenuta agricola di Maccarese, sempre loro. Un affare da 12 miliardi di euro. Fatto sta che i Benetton giocano su più tavoli al punto che potrebbero avere un ruolo anche nella partita Etihad se, come sembra, il fondo sovrano di Abu Dhabi puntasse a una quota di Adr come incentivo (indiscrezioni parlano di 350-500 milioni per il 35 per cento). Si vedrà.
Se ai Benetton in effetti non è andata così male, grazie all’intreccio aeroportuale, per altri azionisti è stata una specie di maledizione. Francesco Bellavista Caltagirone della holding edil-immobiliare Acqua Marcia è agli arresti per frode fiscale. I principali azionisti dietro ai francesi, i membri della famiglia Riva, sono finiti nel mirino della procura di Taranto con l’accusa di avere procrastinato per anni il risanamento degli impianti dell’Ilva: l’inchiesta ha portato al commissariamento dell’azienda e la produzione d’acciaio s’è ridotta di un terzo. Con Alitalia avevano azzardato l’unico investimento diverso dalla siderurgia in quanto “interessati”, si dice, al business dell’aviazione. C’è poi la famiglia di costruttori e assicuratori Ligresti spazzata via dalle inchieste della magistratura torinese (con l’accusa di falso in bilancio) e di quella milanese (per un accordo con Mediobanca tenuto segreto al mercato). Il suo fondatore, Salvatore, artefice di un crac milionario, è finito agli arresti domiciliari ed è stato demolito mediaticamente.
Pure l’immagine pubblica dei pivot di Alitalia è stata fortemente intaccata. Il presidente Colaninno di recente ha fatto parziale mea culpa riconoscendo gli sbagli nelle scelte dei dirigenti cui affidare il rilancio (“abbiamo forse mancato di visione”), nelle strategie (“pochi ricavi”) e nella governance (“da migliorare”). Una presa di coscienza tardiva del presidente che solo ora ammette la “sconfitta” rappresentata da una vendita all’estero. Chi invece rifarebbe tutto allo stesso modo è Corrado Passera, il regista, che in ottobre difendeva sulla stampa il “piano Fenice”: evitò il fallimento di Alitalia scongiurando perdite di posti di lavoro. Eppure fu l’errore strategico fondamentale. Passera, secondo molti osservatori, avrebbe sfruttato l’onda lunga dell’operazione per accreditarsi sul piano politico e lo si è visto col passaggio da ministro “tecnico” sotto l’esecutivo Monti. Ora si propone come leader di una piattaforma d’impronta liberal-liberista dal discutibile appeal elettorale (ambisce a confluire in una coalizione di centrodestra, dice in incontri privati). Non è dato sapere con certezza se queste fossero le sue mire fin dall’inizio. Si sa che promette un piano di rilancio dell’economia da 200-300 miliardi di euro che tuttora non ha svelato (lo farà il 24 febbraio). Che sia un progetto Fenice su scala nazionale?

“L’èra delle partecipazioni statali è finalmente tramontata e la privatizzazione non solo ha cambiato l’assetto azionario ma ha restituito [ad Alitalia] la piena sovranità d’impresa rispetto alle infauste ingerenze sindacali e politiche del passato” Corrado Passera (testo raccolto per il Sole 24 Ore da Franco Locatelli, “Così Alitalia torna un’impresa normale” – 28 settembre 2008)
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