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Old 2nd Nov 2006, 07:58
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iceman51
 
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Alitalia: La fatica di Volare

Riporto di seguito un interessante articolo pubblicato su Repubblica il 15 ottobre u.s. e pubblicato nel blog di Giuseppe Turani, giornalista che stimo per la sua professionalità e che credo nella vicenda sia ben al di sopra delle parti. Nel blog vi sono al momento 25 commenti che non ho ancora avuto tempo di leggere. Il solo articolo ed i commenti li potete trovare qui.

Desidero però evidenziare e commentare un periodo dell'articolo:
Un paese serio affida una società del genere, renitente all’utile (o anche solo al pareggio) da vent’anni, al tribunale civile e pregandolo anche di fare in fretta. Insomma, va lasciata fallire.
Credo che nei primi tre vocaboli di qs frase si possa ben riassumere il problema AZA (e non solo quello): il bel paese NON è (più?) un paese serio.

Buona lettura.
La fatica di volare

L’Alitalia, commenta un broker milanese che in passato qualche soldo su questo titolo deve pur averlo perso, è come la Torre di Pisa: pende, pende, ma non cade mai. E in effetti, se si mettono in fila i risultati aziendali di questa società, non si può che dargli ragione. Dal 1987 a oggi ha chiuso i bilanci in attivo (a livello del margine operativo netto, cioè prima dei pasticci sul capitale) solo due volte: nel 1987, appunto, per 44 milioni di euro e nel 1998, per 271 milioni, grazie a un forte ribasso nel costo del carburante.
In totale, fra perdite e guadagni, dal 1987 a oggi (sempre a livello del margine operativo netto) l’Alitalia ha bruciato qualcosa come 4269 milioni di euro. Cioè più di 4 miliardi di euro, che, per chi fosse rimasto un po’ sulle vecchie unità di misura, fa più di otto mila miliardi delle vecchie lire. In pratica, dal 1987 a oggi l’Alitalia ha bruciato una Finanziaria leggera, di quelle facili.
Ottomila miliardi di vecchie lire sono comunque una cifra impressionante. Al punto che viene da chiedersi non tanto quando fallirà l’Alitalia, ma come mai non è ancora fallita. La spiegazione si trova nell’altra colonna del suo bilancio. A fronte di 4269 milioni di euro di perdita, troviamo infatti 4176 milioni di euro di aumenti di capitale o di versamenti degli azionisti. Insomma, fra vendite di aerei, scorpori di società, e soldi tirati su dallo Stato e versati nelle sue casse, la società fin qui è riuscita a salvarsi. Ma niente può cancellare il fatto che negli ultimi vent’anni questa compagnia di bandiera non ha mai guadagnato una lira, ha chiuso i propri bilanci sempre in perdita, e è costata più di 4 miliardi di euro.
Un altro broker milanese (probabilmente anche lui un po’ scottato dalle operazioni su questo titolo) commenta: “Un ipotetico azionista “fedele”, che si fosse tenuto stretto le sue azioni Alitalia dal 1987 a oggi avrebbe perso il 93 per cento del suo investimento. Ma potrebbe considerarsi fortunato: gli rimarrebbe infatti in mano il 7 per cento, mentre, visti i risultati, dovrebbe essere proprio a zero”.
Stabilito quindi che l’Alitalia è davvero la cattiva ragazza della Borsa italiana, forse il peggior titolo di tutti i tempi. Stabilito che negli ultimi venti anni ha scavato grosse voragini nella finanza pubblica, si arriva alla conclusione che, se esiste un caso in cui l’impietosa mano del mercato deve fare la sua opera di misericordia, è proprio questo: tenere in vita questa società è veramente accanimento terapeutico puro. Un paese serio affida una società del genere, renitente all’utile (o anche solo al pareggio) da vent’anni, al tribunale civile e pregandolo anche di fare in fretta. Insomma, va lasciata fallire. Poi, probabilmente, risorgerà dalle proprie ceneri. Ma prima va fatta fallire: è un atto di giustizia verso quelli che invece lavorano e sudano dalla mattina alla sera per fare qualche soldo di utile.
C’è da chiedersi, prima che il suo inevitabile destino sai compia, come mai l’Alitalia è sempre andata così male. E qui esistono due spiegazioni. Quella colta dice che c’è stata la liberalizzazione dei cieli, con l’ingresso di nuove compagnie (a basso costo e più agili) e l’Alitalia, con una rigidità del personale da far paura, si è trovata come un ciclista che si trova a dover correre chiuso dentro un blocco di cemento. Ha sempre perso di fronte alla concorrenza, ha ceduto quote di mercato, e ha messo insieme bilanci da incubo. L’errore, quindi, è stato quello di non liberalizzare l’Alitalia “dentro” nel momento in cui tutto intorno a lei si andava liberalizzando.
Questa spiegazione è bella anche perchè, come si diceva, è colta. Chiama in causa la liberalizzazione dei cieli e la globalizzazione (per cui il numero degli operatori si è moltiplicato). Ma non convince del tutto.
Infatti l’Alitalia ha perso soldi da sempre, per una ragione o per l’altra, anche prima della globalizzazione e della liberalizzazione dei cieli. Come mai? Escludendo il malocchio, non rimane che chiamare in causa ragioni assai più concrete. Come, ad esempio, un mix infernale fatto di un management mediamente di bassa qualità (basta vedere la varietà degli aerei, sembra di essere a una fiera dell’aeromobile) accoppiato a un personale fra i più avidi dell’intera storia planetaria. Un personale che ha usato l’arma dello sciopero e del cattivo servizio verso gli utenti come stile di vita, come regola. Ma anche, ad esempio, l’inca­pacità di mettere insieme una qualunque ragionevole alleanza europea, quando è chiaro da anni che da sola l’Alitalia non può che infilare la porta del tribunale fallimentare (cosa che peraltro è già capitata a altre sue consorelle europee). E, ancora, l’essere stata per anni un’azienda molto impropria: oltre a far volare degli aerei, era anche un porto sicuro per una lunghissima schiera di amici e parenti dei politici. Una specie di buen ritiro per chi non riusciva a trovare un posto altrove, ma aveva buoni santi in Paradiso.
Basterebbe tutto questo, al di là dei risultati, per dire che deve fallire. L’Alitalia è ormai un’azienda con il Dna di un mostro. Pretendere di trasformarla in una compagnia regolare sarebbe un po’ come pretendere di insegnare l’uncinetto a un dinosauro. E’ troppo tardi. Meglio ripartire da zero.
(da "Repubblica" del 15 ottobre 2006)
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